
Un chatbot medico sviluppato da Google, chiamato Articulate Medical Intelligence Explorer (AMIE), ha mostrato una notevole capacità di diagnosticare eruzioni cutanee e altre patologie analizzando immagini scattate da smartphone e documenti clinici come elettrocardiogrammi e referti di laboratorio in formato PDF. In uno studio sperimentale, AMIE ha superato i medici umani sia in accuratezza diagnostica sia nella gestione delle consultazioni virtuali, anche in presenza di immagini di qualità non ottimale. Il sistema, basato sul modello linguistico Gemini 2.0 Flash, è stato adattato per il contesto medico e può condurre conversazioni diagnostiche simulate, avvicinandosi sempre più al modo in cui ragiona un clinico.

State tranquilli, cari ipocondriaci: adesso non vi servirà nemmeno più rompere i coglioni al medico di famiglia per farvi vedere quel puntino rosso sull’avambraccio. Vi basta fare una bella foto col vostro smartphone - magari pure sfocata e con la fotocamera lurida di ditate - e Google fa il resto. Era ora, direte voi, così almeno l’umanità può finalmente dedicarsi a compiti più elevati tipo scrollare Instagram e lamentarsi che la sanità pubblica fa schifo.
Sì, il chatbot dei geni di Google adesso diagnostica le malattie della pelle meglio dei dottori umani. Ma non solo: si pappa pure referti, PDF, elettrocardiogrammi e, con un po’ di fortuna, forse anche le ricette della nonna. Praticamente, mentre il medico umano si fa un culo quadro tra turni infiniti, scioperi e pazienti che ho letto su internet che forse ho la lebbra, l’intelligenza artificiale si spara cento scenette con attori pagati per fare i malati finti, beccandoci quasi sempre. E se sbaglia? Amen, tanto un pixel in più o in meno non ha mai ammazzato nessuno, giusto?
La cosa divertente, se avete ancora un barlume di cervello funzionante, è che il grande salto avanti dell’AI sembra consistere soprattutto nell’aver insegnato a una macchina a parlare coi pazienti senza trattarli come scimmie lobotomizzate. Ehi, salve signora, mi faccia vedere quella pustola. Ah, uno spettacolo. Mica serve un’anima: basta un algoritmo ben lucidato e una simulazione alimentata a dati. Il risultato? Più preciso del dottore vero, che magari la sera prima ha bevuto due birre di troppo, e soprattutto non si fa mai i cazzi suoi: pronto 24 ore su 24, non chiede ferie, non sbuffa nemmeno quando vi presentate con la foto del piede lurido.
Ora, il dettaglio che fa scaldare il cuore ai futuri disoccupati delle professioni sanitarie è che sta roba è ancora sperimentale. Oh, per fortuna! Giusto il tempo di far abituare tutti all’idea che la carne umana, da sola, non serve più a un cazzo. Poi via, dritti verso un futuro in cui le diagnosi verranno fatte tra una pubblicità e l’altra su YouTube, e la gente si convincerà che l’intelligenza artificiale non sbaglia mai. Tranquilli, poi vi ritroverete a litigare con il chatbot perché non capisce la vostra tosse che non va via, e allora sì che vi mancherà il medico vero, quello che almeno sapeva fingere di ascoltarvi.
Chissà, magari la prossima versione del giocattolo Google saprà anche consolarvi quando scoprirete che la vostra orticaria era solo allergia al detersivo della mamma. O forse vi prescriverà una bella dose di smettila di rompere il cazzo e vai a lavorare. Difficile dirlo, ma una cosa è certa: la digitalizzazione della sanità ci farà tutti sentire più soli e più coglioni di prima. E alla fine, sarete comunque voi a dovervi comprare il fazzoletto per piangere.
Negli esperimenti, ‘sti attori facevano i malati davanti al chatbot Google e al medico umano. Indovinate chi ha vinto? L’AI, ovvio, che almeno non si fa distrarre dal fiatone puzzolente del paziente. Interessante anche che le immagini di merda, quelle scattate col telefono di uno che ha le dita unte, non la mandano in crisi. Certo, sempre che non vi venga in mente di fotografare il culo del gatto invece della vostra eruzione cutanea.
Se volete che il chatbot vi salvi la pelle, almeno fatevi la cortesia di pulire la lente della fotocamera, magari anche di lavarvi le mani (caso mai vi fosse sfuggito che siete degli zozzoni). E quando arriverà il giorno in cui Google vi diagnosticherà una “rottura di coglioni cronica”, fatevi un favore: spegnete il telefono e provate a parlare con una persona vera. Magari scoprirete che non tutte le diagnosi si curano su Internet.