
Toyota ha annunciato una generosa donazione di un milione di dollari per l'investitura di Donald Trump, prevista per il 20 gennaio. Anche Ford e General Motors hanno seguito l'esempio, e altre grandi aziende sono attese a fare lo stesso. Non solo il settore automobilistico, ma anche banche come Goldman Sachs e Bank of America, aziende di criptovalute e giganti tecnologici come Amazon e Meta stanno contribuendo generosamente. Sebbene il totale ufficiale delle donazioni sarà annunciato solo dopo l'inaugurazione, si stima che supererà i 107 milioni di dollari raccolti nel 2017. I fondi finanzieranno vari eventi, con privilegi offerti ai donatori. Le donazioni, aperte a tutti, rafforzano l'influenza delle aziende presso il presidente.

[Drammatizzazione ispirata alla notizia]
Ok, gente, ve lo dico chiaro e tondo: questa nave sta affondando. No, non mi riferisco alla mia azienda. Quella è già sott’acqua da un pezzo, come il Titanic, ma senza l’orchestra che suona. Parlo proprio di noi, del sistema, del mondo che abbiamo costruito con le nostre stesse mani. Siamo così abituati a pensare che il denaro sia una soluzione che ci siamo dimenticati che è solo il combustibile per il falò che ci stiamo godendo mentre bruciamo vivi.
Toyota, Ford, General Motors: noi, come loro, anche se costruiamo solo componenti, ci definiamo giganti, leader, innovatori. Ma sapete cosa siamo davvero? Siamo solo un branco di disperati che si rincorre per le briciole della tavola del potere. Un milione di dollari a testa per finanziare l’investitura di Trump. Ma non vi preoccupate, mica siamo soli: Amazon, Meta, Goldman Sachs… pure OpenAI! Oh, com’è rassicurante sapere che i cervelloni che stanno plasmando il futuro dell’intelligenza artificiale trovano il tempo di finanziare una cena da 250.000 dollari a testa. Voglio dire, un quarto di milione per vedere chi? Trump che si abbuffa?
E non facciamo finta che sia solo per i biglietti o la parata. Privilegi, li chiamano. Sì, tipo poterti sedere accanto al capo mentre decide quanti pezzi della torta ti spettano. Perché lo sapete anche voi: se non sei al tavolo del presidente, sei nel menu. E a quanto pare noi siamo contentissimi di essere i camerieri che servono il pasto.
La cosa più ironica? Tutto questo non è nemmeno un segreto. È palese, è sfacciato. Amazon e Meta, quelli che avevano denunciato l’assalto al Campidoglio, ora si lanciano nel girotondo con un entusiasmo che farebbe invidia a una cheerleader al Super Bowl. E Trump? Lui ride. Letteralmente. Scherza su Truth Social, come se fossimo un gruppo di bambini che lo implorano di invitarci alla sua festa di compleanno. E sapete cosa? Ha ragione a ridere. Perché siamo ridicoli.
Ma torniamo a noi, alla mia azienda. Cosa pensavate, che assieme a tutte queste belle marche dietro ci fosse un futuro roseo? No. Abbiamo costruito un sistema in cui la priorità non è l’innovazione, non è la sostenibilità, non è nemmeno il profitto. È semplicemente sopravvivere. E per sopravvivere bisogna leccare i piedi giusti, o meglio ancora, riempirli di soldi.
E così, eccoci qui, a buttare milioni in una cerimonia che è solo una scusa per chiudere affari sotto il tavolo. Ma non importa, giusto? Basta che l’industria automobilistica regga altri cinque minuti. E se per farlo dobbiamo scendere a compromessi con chiunque sia di turno alla Casa Bianca, che problema c’è? Tanto è tutto un gioco, no?
Ma vi dirò una cosa: io ho finito di giocare. Non perché voglia fare il moralista, per carità. Non c’è niente di morale in me. È che sono stanco. Stanco di fingere che questo abbia senso, stanco di far finta che stiamo costruendo qualcosa di significativo quando in realtà stiamo solo cercando di non farci seppellire dalle macerie che noi stessi abbiamo creato.
Lo sapete qual è la parte più schifosa di tutto questo? La decisione. Sì, la decisione che mi spetta, quella che nessuno vuole prendere, ma che io non posso evitare. E non è decidere se versare quei dollaroni per la cerimonia. Quello lo abbiamo già fatto, è stata una firma, un click, un’altra fottuta mail archiviata. La vera decisione è un’altra.
Fuori da questa azienda a pezzi, che costruisce pezzi che in futuro non vorrà più nessuno, parcheggiati nei nostri maledetti parcheggi, ci sono persone che lavorano qui. Non per me, non facciamo gli ipocriti, lavorano perché devono. E vivono nei loro camper. Camper! Non per le vacanze, no, non per scappare un weekend con la famiglia. Camper come casa. E ogni tanto li vedo. Non perché io voglia guardarli, no, ma perché sono lì. E li vedo quando passo con la mia macchina da 200 mila dollari, che ho comprato non perché mi servisse, ma perché mi faceva sentire speciale.
E loro? Sono lì, che stringono le mani ai figli prima di lasciarli alla scuola pubblica più vicina, perché è quasi gratis. Poi entrano qui, fanno il loro lavoro come se tutto fosse normale, come se non sapessero che ogni maledetto giorno li avvicina un po’ di più al tracollo. Mi sorridono, a volte. E sapete cosa faccio io? Ricambio il sorriso. Perché sono un codardo. Perché non ho mai avuto il coraggio di fermarmi e dirgli: So che non ce la fai. So che vivi in un camper. So che hai dovuto scegliere se comprare il latte o pagare l’assicurazione sanitaria. No, io non lo dico. Mi limito a sorridere e a sperare che non si accorgano che dentro sono morto da un pezzo.
E adesso è arrivato il momento. Ho avuto due scelte davanti: scucire i soldi per loro, per dargli almeno un bonus, qualcosa che dica: Non mi sono dimenticato di voi, nonostante sembri così, oppure mettere quei soldi su un altro assegno per l’investitura, per assicurarmi che la prossima volta che busso a quella porta qualcuno apra.
Perché non basta sorridere ai potenti, non basta dire: Abbiamo donato un milione. Devi continuare a donare. Devi continuare a inchinarti. È come un abbonamento alla sopravvivenza: se smetti di pagare, sei fuori dal gioco. E se sei fuori dal gioco, non c’è più azienda. Non ci sono più stipendi. Non ci sono più camper, perché quei camper diventano l’unica cosa che resta.
Quindi che faccio? Li aiuto, sapendo che è una goccia nel mare, o continuo a giocare a questo sporco gioco, sapendo che li sto tradendo tutti?
E sapete cosa mi fa più schifo? Il fatto che conosco già la risposta. La risposta è che non c’è scelta. Gli do qualcosa. Una briciola. Un bonus natalizio. Qualche misero dollaro, abbastanza perché non smettano di sperare. Ma non troppo, perché non posso permettermi di compromettere la prossima donazione. E mentre lo faccio, mentre firmo quell’assegno per loro e l’altro per l’investitura, mi convinco che va bene così, che è necessario.
Ma non è vero. È solo un altro compromesso. È solo un altro passo verso il baratro. E io li sto portando con me, tutti quanti per comprare l’illusione che tutto vada bene, mentre là fuori il mondo guarda, ride, e forse un po’ ci disprezza. Ma sapete cosa? Ce lo meritiamo.