Un volo Azerbaijan Airlines è precipitato in Kazakistan dopo essere stato colpito dai frammenti di un missile russo esploso in Cecenia, secondo le prime valutazioni degli esperti di sicurezza aerea occidentali. L'incidente ha causato la morte di almeno 38 delle 67 persone a bordo. Le indagini preliminari suggeriscono che i danni alla fusoliera dell'Embraer E190 possano essere stati causati da schegge o sfere d'acciaio rilasciate dal missile. Nonostante tre tentativi di atterraggio falliti a causa della nebbia, il jet ha cercato di deviare verso un aeroporto in Kazakistan, ma è precipitato a pochi chilometri dalla pista. L'incidente non è attribuibile a malfunzionamenti tecnici o errori umani, ma a un atto doloso esterno.
[Drammatizzazione ispirata alla notizia]
Una mano sulla valigia, l’altra che stringe quel fottuto bracciolo. Sapete cos’è il vero lusso su un volo economico? Sopravvivere.
I sedili sono disegnati per nani senza colonna vertebrale, il cibo è una minaccia biologica, e il wi-fi costa più del biglietto. Ero qui solo perché la vita fa schifo e un matrimonio in Cecenia sembrava l’alternativa meno tossica al cenone di Natale con mia zia che scarta regali di plastica come se fossero diamanti. Grande idea, no? Poi arriva il missile. Perché un Natale così era fin troppo normale anche per me.
Sento un boato. Forte. L’aereo vibra come se Dio avesse deciso di scrollarci di dosso come polvere dalla sua giacca. Qualcuno urla, qualcuno piange, qualcuno continua a russare. Mi chiedo se abbiano capito. Perché io sì. Non era un fulmine. Non era turbolenza. Era il rumore della morte che fa le prove tecniche.
La hostess ci passa accanto con quel sorriso finto incollato in faccia, lo stesso che hanno le cassiere quando finisce la carta di credito al cliente. Tutto a posto. Sì, come no. A posto come un matrimonio finito in Cecenia. L’unica cosa che tiene insieme quell’aereo è l’orgoglio dei piloti e il nastro adesivo.
Cosa fai quando sai che potresti schiantarti da un momento all’altro? Preghi? Scrivi l’ultimo messaggio? Io no. Io mi metto a ridere. Non per coraggio, ma per disperazione. Pensavo: Ma davvero morirò così? Con le mutande comprate in saldo e il mio nome pronunciato male da un giornalista locale?
Ogni tanto l’aereo si inclina, poi torna dritto, come un ubriaco che cerca di sembrare sobrio. Il pilota parla dall’interfono, ma è tutto un fruscio. Forse dice: Tranquilli, ci penso io. O forse: Siamo fottuti, iniziate a confessare i peccati. Fatto sta che ci provano, cazzo se ci provano.
Tre tentativi di atterraggio. Tre. A ogni discesa, senti l’aria cambiare, il silenzio diventare un rumore assordante. E poi risaliamo. Non ce la fanno. E intanto il mio cervello è in una maratona di autocommiserazione: tutte le cazzate che ho fatto, i sogni che non ho realizzato, le persone che ho ferito. Non c’è mai stato tempo, mai abbastanza tempo, e ora non ce n’è proprio più.
Ora, mentre i piloti cercavano di far atterrare questa specie di bara volante, io osservavo gli altri passeggeri. C’era chi pregava, chi piangeva, chi registrava video. Sì, video. Perché ormai morire non basta: devi anche andare virale. Uno davanti a me continuava a gridare: Atterriamo, atterriamo! Ma atterrare dove? Siamo in mezzo al Kazakistan, fratello. Non c’è niente qui, a parte un’altra scusa per rimpiangere la tua vita.
I piloti ci stavano mettendo impegno, eh. Uno di loro aveva quindicimila ore di volo. Sapete cosa sono quindicimila ore? Abbastanza per capire che in quel momento avrebbe fatto meglio a mollare tutto e farsi prete. Ma no, avanti col quarto tentativo.
E lì, signori miei, la discesa. Una velocità assurda. Sembrava una caduta libera più che un atterraggio. E io pensavo solo: Mia madre ha sempre detto che sarei morto facendo qualcosa di stupido. Beh, eccoci qua.
Quando siamo arrivati a terra, o meglio, quando la terra ci ha accolto a 390 chilometri orari, è stato un macello ed è arrivata la botta. La vera botta per Sbotta, che non fa neanche sorridere. Senti il pavimento che ti tradisce, il soffitto che si avvicina troppo in fretta. Non è come nei film. Non c’è rallentatore, non c’è musica epica. C’è solo una brutalità fredda, una fine banale che si consuma in un respiro trattenuto.
La parte anteriore del velivolo si è schiantata per prima. Io ero più indietro, vicino al bagno, che ironicamente è il posto dove finisci sempre quando tutto va a puttane. Lì, nel caos, ho avuto un momento di lucidità. Ho pensato: Ecco cosa significa vivere una vita senza fare mai scelte giuste. E poi... buio.
Quando mi sveglio, c’è fumo. Odore di bruciato. Urla lontane. Il mio corpo è un groviglio di dolori. Ma sono vivo. Vivo. E allora la prima cosa che penso non è Grazie, Dio. È: E adesso che cazzo faccio?
Ora sono qui a raccontarlo, ma non vi illudete: non è una storia di sopravvissuti eroici. Non sono un eroe, non ho salvato nessuno. Sono solo uno che ha avuto il culo di sedersi nel posto giusto. Perché alla fine, in questa vita, tutto si riduce a quello: culo. Culo di nascere, culo di vivere, culo di non morire troppo presto.
Guardate, forse siamo tutti su un aereo che sta per precipitare. La vita, intendo. E facciamo finta di niente. Litighiamo per stronzate, postiamo foto ridicole, spendiamo soldi in cose inutili. Perché? Perché abbiamo paura di guardare in faccia la realtà: non controlliamo un bel niente.
Io ho capito una cosa: la vita è una serie di atterraggi mancati, un fottuto balletto di salite e discese, e alla fine toccheremo terra comunque, senza poter controllare dove o come, che ci piaccia o no.